IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, Ben Mouhamed Kame veniva rinviato a giudizio, a seguito di istruzione formale, per rispondere, in concorso con altre due persone, del eato di cui all'art. 72 della legge n. 685/1975 (concessione a terzi di modica qualita' di eroina). All'odierna udienza il Kame ha chiesto che si procedesse con il rito abbreviato ai sensi dell'art. 247 del d.lgs. n. 271/1989 ("norme transitorie" del c.p.p.). Non avendo il p.m. prestato il suo consenso, il tribunale, deciso previa separazione dei procedimenti, il merito dell'imputazione relativa ai due coimputati del Kame, ritiene di dover rimettere alla Corte costituzionale, in relazione a quest'ultimo, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 247 citato, nonche' degli artt. 438 e 442 del c.p.p., in quanto, non consentendo al giudice di sindacare il dissenso del p.m. in ordine alla instaurazione del giudizio abbreviato, si pongono in contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 27, e 101 della Costituzione. La relazione al progetto preliminare del codice giustifica la previsione di insindacabilita', da parte del giudice, del dissenso del p.m. sulla richiesta dell'imputato di procedere nelle forme del giudizio abbreviato, con argomentazioni che possono cosi' riassumersi: a) nel "patteggiamento", che investe direttamente l'entita' della sanzione, al p.m. puo' essere riconosciuto il potere di impedire la definizione anticipata del processo, ma non gia' quello di condizionare la sanzione, che pertanto potra' essere applicatata dal giudice nella misura richiesta, nonostante che il p.m., con il suo dissenso, ritenuto ingiustificato, abbia impedito la definizione anticipata del processo. Il sindacato del giudice riguarda pertanto non gia' la scelta del rito ma il merito dell'imputazione; b) nel giudizio abbreviato, al contrario, l'accordo delle parti investe direttamente la scelta del rito che e' prerogativa che attiene, oltre che al diritto di difesa dell'imputato, al potere di azione del p.m. e come tale non e' sindacabile dal giudice se non sotto il limitato profilo - essenziale all'esercizio della funzione giudiziaria - della possibilita' di decidere allo stato degli atti; c) del resto "l'accordo delle parti che precede tale decisione del giudice - proprio perche' e' un accordo limitato al rito processuale (anche se con conseguenze sull'entita' della pena in caso di condanna) - in nessun modo riguarda il merito dell'imputazione"; d) va considerato, infine, che la scelta del p.m. puo' essere determinata da una gamma cosi' vasta di motivi - "la diversita' di organo decisorio (singolo o collegiale nei processi di competenza del tribunale e della corte d'assise), la segretezza o la pubblicita' del giudizio, la opportunita' o meno di facilitare la partecipazione al giudizio della parte civile, l'utilita' che sia limitata la proponibilita' dell'appello, la rilevanza che rispetto all'esito del giudizio puo' assumere il diverso regime di utilizzabilita' degli atti compiuti ai fini della decisione di merito, la stessa diminuzione della pena nel caso che l'imputato venga condannato" - da rendere estremamente difficile anche la mera configurabilita' in astratto della sindacabilita' del dissenso sulla richiesta dell'imputato. Osserva il collegio che, quale che sia il grado di interna coerenza e di fondatezza, sul piano delle necessita' processuali, delle scelte del legislatore, la legittimita' costituzionale della insindacabilita' del dissenso vincolante del p.m. all'instaurazione del giudizio abbreviato configurato nei citati artt. 247 delle disp. trans., 438 e segg. del c.p.p., va pur sempre misurata alla stregua delle norme costituzionali che regolano l'esercizio della giurisdizione. Non puo' dubitarsi infatti che l'insindacabilita' del dissenso del p.m. non potrebbe essere sollevata dal sospetto di incostituzionalita' per il solo fatto che essa sarebbe imprescindibilmente connaturata ai meccanismi del rito abbreviato; se mai, se cosi' fosse, e' questo rito che andrebbe eliminato dall'ordinamento, ove dovesse risultare incompatibile con le norme costituzionali. Questa premessa, di per se' del tutto ovvia, e' parsa al collegio necessaria con riferimento ad alcune pronunce di altri organi giudicanti, che, sulla scia delle argomentazioni della relazione sopra riassunte, hanno dichiarato manifestamente infondata la questione, in ragione, appunto, della impossibilita' di una soluzione diversa, con particolare riguardo alla discrezionalita' della scelta del rito da parte del p.m. A tale proposito, e' agevole replicare che la sindacabilita' della scelta del rito e' non solo compatibile con le prerogative del p.m. - tant'e' che lo stesso codice prevedere che il giudice possa sindacare i presupposti della richiesta di giudizio direttissimo (art. 452, primo comma) o immediato (art. 455) - ma addirittura imposta dalla Costituzione a salvaguardia dei valori costituzionali. Tanto cio' e' vero che, con riferimento al principio del giudice naturale, la Corte costituzionale (sentenze nn. 117/1968 e 40/1971) ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 389 del codice abrogato appunto perche' non consentiva il sindacato del giudice sulla valutazione del p.m. in ordine ai presupposti (evidenza della prova, confessione, non necessita' di ulteriori atti di istruzione) della istruzione sommaria; ed ha escluso, con riferimento al giudizio direttissimo (sentenza n. 209/1971), il contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, solo in quanto ha riconosciuto la sindacabilita' da parte del giudice della valutazione del p.m. in ordine alla necessita' di speciali indagini. E' del tutto evidente, dunque, che nel nostro ordinamento vige l'esatto contrario del principio di insindacabilita' della scelta del rito da parte del p.m., che e' titolare dell'azione penale, non gia' arbitro assoluto dei suoi modi di esercizio. Del resto la stessa Corte, con la decisione che piu' si attaglia al caso di specie (sentenza n. 120/1984), ha potuto salvare dal giudizio di illegittimita' gli artt. 77 e 78 della legge 24 novembre 1981, n. 689, solo in quanto ha ritenuto che il dissenso del p.m. non precludesse al giudice di applicare nel dibattimento la sanzione sostitutiva richiesta dall'imputato. In tale decisione la Corte ha esplicitamente detto che il parere negativo vincolante del p.m. era compatibile con le norme costituzionali (artt. 3, 24, 101, 102 e 111 della Costituzione) solo in quanto, esaurendo nella fase predibattimentale i suoi effetti di "veto" all'applicazione della sanzione sostitutiva, determinava il passaggio alla piu' garantita fase del dibattimento, dove il giudice, superando il dissenso del p.m., poteva applicare quella sanzione. E' vero che anche nel caso di specie il dissenso del p.m. determina il passaggio alla fase del dibattimento, ma resta il fatto - decisivo nella citata pronuncia della Corte - che il giudice del dibattimento non puo', nel meccanismo del giudizio, abbreviato configurato dal codice, applicare all'imputato il trattamento sanzionatorio di favore previsto dell'art. 442, sicche' il passaggio al dibattimento non impedira' che: a) in contrasto con il primo comma, dell'art. 3 della Costituzione "le ragioni del pubblico ministero, contrarie alla richiesta dell'imputato" siano sottratte ad una "obiettiva ed imparziale valutazione nella fase del dibattimento"; b) in contrasto con l'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione "la richiesta dell'imputato" sia "sottratta in modo definitivo alla valutazione del giudice"; c) in contrasto con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, ne restino intaccate "le attribuzioni di organo giudicante proprie del giudice", che nella commisurazione della pena sara' condizionato dal vincolante parere del p.m. I profili di illegittimita' sopra accennati - elaborati dalla Corte nella pronuncia sopra citata con riferimento ad un diverso meccanismo processuale - se rapportati al giudizio abbreviato previsto dal nuovo codice e dall'art. 247 delle norme transitorie, possono essere eliminati solo assegnando al giudice dell'udienza preliminare o al giudice del dibattimento il potere-dovere di sindacare il dissenso del p.m. Per la valutazione di conformita' alla Costituzione, decisiva e' infatti - al di la' della sede processuale in cui si realizza - la disparita' di trattamento sanzionatorio che consegue al dissenso del p.m. A tale proposito non vale affermare, come fa la relazione al progetto preliminare, che l'accordo delle parti riguarda direttamente il rito e che esso "in nessun modo riguarda il merito dell'imputazione. Il fatto e' che all'accordo sul rito consegue la misura della sanzione, che riguarda precisamente il merito dell'imputazione. Ne' e' conseguenza che possa mettersi tra parentesi, giacche' e' proprio il trattamento sanzionatorio che, per rimanere ancorato alla giurisdizione esige il rispetto delle condizioni di legittimita' costituzionale del suo esercizio. Tra queste condizioni non puo' non esservi il controllo giurisdizionale del dissenso del p.m., giacche' e' proprio la sua insindacabilita' che non consente di valutare se la diversita' della sanzione possa trovare giustificazione razionale nella peculiarita' della regiudicanda ossia invece la conseguenza di un dissenso motivato (nel foro interno) dalle personali visioni di politica giudiziaria del singolo magistrato del p.m. o a limite dal suo capriccio. Del resto lo stesso codice, in relazione al c.d. patteggiamento (applicazione della pena su richiesta delle parti) impone al p.m. di motivare il suo dissenso (art. 446, sesto comma) e attribuisce al giudice del dibattimento il potere di sindacare il dissenso stesso (art. 448), all'uopo consentendogli di esaminare gli atti contenuti nel fascicolo del p.m. (art. 135 dis. att.). E, come spiega la relazione al progetto preliminare, queste disposizioni sono state dettate per recepire le indicazioni della piu' volte richiamata sentenza n. 120/1984, atteso che il pubblico ministero "non e' e non puo' essere arbitro delle sorti dell'imputato e, quindi, non puo' precludergli un trattamento vantaggioso quando ne ricorrono le condizioni e il dissenso, all'esame del giudice, risulta ingiustificato". Se e' vero, dunque come non par dubbio, che la diversita' di trattamento sanzionatorio conseguente al giudizio abbreviato esige, per la sua conformita' alla Costituzione, la sindacabilita' del diniego del p.m. all'instaurazione del rito, altrettanto evidente e' che i motivi del diniego devono essere legalmente configurati e di tale rilevanza da giustificare, alla stregua dei parametri costituzionali, l'esclusione della sanzione piu' favorevole. A tal proposito la relazione, come s'e' visto, ritiene che non sono tipizzabili i parametri sulla base dei quali il p.m. si determina alla scelta del rito, salvo poi ad indicarne una serie tipica, al di la' della quale francamente non si vede quale altra ragione, che non sia del tutto arbitraria, possa indurre il p.m. a negare il consenso al giudizio abbreviato. Orbene, mentre da un lato nessuna ragione logica sembra opporsi alla configurabilita' come presupposti della scelta del p.m. dei parametri individuati nella relazione, dall'altro lato e' dubbio che alcuni di tali parametri possano essere posti a fondamento della esclusione di un rito che comporta come conseguenza una diminuzione della sanzione. Si puo', per esempio, dubitare che sia conforme all'art. 3 della Costituzione che "la opportunita' o meno di facilitare la partecipazione al giudizio della parte civile" giustifichi, a parita' di altre condizioni processuali e di merito, la disparita' di trattamento sanzionatorio che consegue al giudizio abbreviato. Ed e' certamente in contrasto con "le attribuzioni di organo giudicante proprie del giudice" (art. 101 della Costituzione, nell'esplicitazione della citata sentenza della Corte), il dissenso motivato dalla volonta' di impedire l'applicazione all'imputato della diminuente prevista dall'art. 442 del c.p.p. Qui si riconosce esplicitamente al p.m. un potere decisionario, sia pur mediato dalla scelta del rito, in ordine alla misura della pena. Il che si pone in evidente contrasto con la configurazione costituzionale del sistema giurisdizionale, che assegna al giudice il potere di decidere in ordine alla pena, mentre al p.m. spetta soltanto un parere obbligatorio ma non vincolante. Nel caso di specie, al tribunale non e' dato conoscere la ragione per la quale il p.m. ha rifiutato il consenso all'instaurazione del giudizio abbreviato anche se trattandosi di dibattimento a seguito di istruzione formale, che consentirebbe sicuramente la decisione allo stato degli atti l'unica ragione del diniego seriamente ipotizzabile attiene alla misura della pena. E qui si appalesa evidente, da un lato il carattere decisorio del dissenso del p.m. e dall'altro lato la disparita' di trattamento sanzionatorio che ne conseguirebbe per l'imputato che, pur rispondendo di un fatto di entita' singolarmente minima (cessione di mezza dose media di eroina pari a 16 mg) non potrebbe fruire, se non previa rimozione della situazione di illegittimita' costituzionale, della diminuente prevista dall'art. 442 del c.p.p., richiamato dall'art. 247 disp. trans., con la conseguenza che egli subirebbe una pena piu' grave di quella inflitta ai tanti imputati di fatti analoghi e piu' gravi che il tribunale e' chiamato a giudicare con il rito abbreviato. Accanto ai parametri costituzionali gia' esaminti e presi in considerazione dalla Corte della piu' volte citata sentenza n. 120/1984 (artt. 3, 24 e 101 della Costituzione), ritiene il collegio che vadano considerati anche quelli espressi negli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione. La riserva di legge sancita nel citato art. 25 - che riguarda, come e' noto, non solo il precetto, ma anche la sanzione imposta dalla norma penale - richiede che la sanzione stessa sia ancorata ad un "fatto", cioe' ad una condotta materiale ascrivibile all'imputato. Tale condotta non puo', evidentemente, individuarsi nel tipo di processo con cui viene accertata, tanto piu' quando l'instaurazione del rito e' rimessa all'insindacabile parere del p.m. Ne' varrebbe obbiettare che la riserva di legge e' rispettata perche' l'effetto sanzionatorio e' comunque previsto, appunto, dalla legge. Come ha chiarito recente ed autorevole dottrina, il principio di stretta legalita' esige non solo che la sanzione sia prevista dalla legge (principio di mera legalita') ma altresi' che la legge che la prevede sia conforme alla Costituzione; in altre parole, non basta una previsione legislativa perche' la sanzione sia legittima ma e' altresi' necessario che quella previsione ancori la sanzione e i suoi contenuti ai presupposti voluti dalla Costituzione. La legge, insomma, se in base al principio di mera legalita' e' condizione di legittimita' della sanzione, in base al principio di stretta legalita' e' a sua volta condizionata, nella sua validita' costituzionale, dai presupposti ai quali la costituzione subordina l'imposizione della sanzione. Non puo' dubitarsi che gli artt. 247 disp. trans. e 442 del c.p.p., in quanto collegano la sanzione non gia' ad un "fatto" dell'imputato, bensi' ad un evento (il consenso del p.m. "sottratto all'accertamento giurisdizionale - che e' uno dei presupposti costituzionali dell'applicazione della sanzione (art. 25, primo comma, 102, primo comma, 111, secondo comma, della Costituzione) - contrastano con il principio di stretta legalita' sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Infine, l'insindacabile dissenso del p.m. e, forse, l'intero meccanismo del rito abbreviato, si pone in contrasto con il principio costituzionale di colpevolezza art. 27, primo comma, della Costituzione), in quanto ricollega la sanzione non gia' ad un comportamento riferibile alla persona dell'imputato, bensi' ad un evento che, per essere immotivato ha carattere di mera accidentalita' ed appartiene comunque alla sfera di determinazione addirittura della controparte processuale. In conclusione, ricorrono validi motivi per ritenere che gli artt. 247, terzo comma, delle norme transitorie e 438, primo comma, 442, secondo comma, contrastino con gli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27, primo comma, 101, della Costituzione. Vedra' poi la Corte adita se, ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87/1953, l'eventuale dichiarazione di incostituzionalita' vada estesa ad altre norme, tra cui l'art. 2, n. 53, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, anche se, ad avviso del collegio, la previsione nella legge delega del consenso del p.m. alla definizione del processo nell'udienza preliminare, non significa che quel consenso non possa essere ancorato a parametri soggetti al sindacato del giudice.